Prima di iniziare il nostro anno A Scuola nel Mondo dobbiamo prepararci. Qui scopri come abbiamo fatto. Dai libri che abbiamo letto, alle associazioni o le persone che abbiamo contattato o intervistato prima di partire, dai corsi che abbiamo frequentato all’attività fisica che abbiamo fatto per partire in forma. Dai documenti ai vaccini, dalle cosa da mettere in valigia a quelle che abbiamo dovuto lasciare a casa. Tutto quanto ci è servito per prepararci alla Scuola nel Mondo, perché un viaggio inizia nel momento in cui lo stai pensando.

09.05.2018
Fase 2: l’incertezza del dopo e la ripresa sociale
Dopo un disastro assistiamo sempre ad un fenomeno: quello delle polarizzazioni. Lo insegna la storia. A mio avviso saranno due gli estremi che si andranno a sviluppare con il dopo, un dopo ballerino, incerto ed improvvisato. E’ vero, siamo bravi noi italiani ad improvvisare, e nell’incertezza viene fuori la nostra creatività ma come ha evidenziato anche Francesco Rotondi nel suo articolo sull’Economist del 07 Maggio al momento pare non vi sia visione strategica da parte di chi governa il nostro paese, non c’è visione organizzativa, non c’è visione di sistema e a mio avviso rischiamo di affrontare un compito in classe senza aver mai aperto il libro sperando che qualcuno ci passi le risposte da sotto il banco, possiamo avere un colpo di fortuna oppure un’improvvisa illuminazione, ma il rischio di essere bocciati è decisamente alto. Non solo manca un piano preciso per la ripresa economica ma manca anche un piano per la ripresa sociale. Anche qui potremo ricadere i due estremi: quello della voglia di tornare a stare insieme magari facendo ripartire il virus e quello della sfiducia e ritiro all’interno dei nostri confini e delle nostre mura.
Aprirsi invece che chiudersi sarà strategico per una ripresa sociale che ci apra al futuro
Andare oltre al tempo del Coronavirus significa per me aprirsi invece che chiudersi, imparare nuovi modi per stare nel mondo invece che lamentarsi di quello che non va bene. Creare nuove connessioni e nuove relazioni, riscoprire quel famoso destino comune di cui parlava Edgar Morin nel suo concetto di planetizzazione e trovare insieme soluzioni buone a quel destino concentrandoci sui problemi globali come quello del clima e del lavoro, magari risolvendoli proprio usando bene l’Intelligenza Artificiale. Durante il Corona Virus abbiamo scoperto che Internet non ci rende stupidi, ma che può farci diventare più intelligenti: dall’uso appropriato dei Social Media ai corsi gratuiti di ogni genere che in questo periodo abbiamo potuto frequentare per formarci e riscoprire il significato della formazione continua e della nostra stessa responsabilità nell’usare la tecnologia. Certo, bisogna conoscere gli strumenti, avere infrastrutture adeguate e connessioni veloci, ma abbiamo assaggiato un pezzetto di “buono” di quello che invece ci sembrava un amaro boccone da digerire: il digitale. Da qui possiamo partire e sfruttare quel senso di planetizzazione per usare la tecnologia e l’Intelligenza Artificiale a favore dell’ambiente, dei posti di lavoro e della felicità dell’uomo.
Il mio dopo
Il dopo per me significa rivedere completamente anche la mia vita, il mio rapporto con il tempo, con i soldi, con le cose, ma soprattutto riscoprire il bene di stare con mio figlio Alessandro e soprattutto come lo sto preparando a diventare un cittadino del mondo responsabile e in grado di contribuire al bene della società in cui viviamo.
Qualcosa di buono il Covid19 a me lo ha portato, mi ha fatto capire l’importanza delle relazioni buone, delle connessioni con gli altri e ha rinforzato ulteriormente in me quanto sia importante aprirsi invece che chiudersi, costruire fiducia invece che sospetto, comprensione invece che ottusità. Il mondo è cambiato fuori per tutti, ma per molti è cambiato anche dentro. Questo cambiamento lì fuori lo voglio vedere con i miei occhi, voglio capire cosa è cambiato, voglio capire cosa le persone hanno imparato, voglio capire se a predominare sarà il senso della sfiducia o quello della connessione.
Quello che dici non verrà ricordato, quello che fai sì
E’ risaputo che quello che noi diciamo i nostri figli non lo ricorderanno ma quello che facciamo e come viviamo è l’eredità che lasciamo loro. Come io sto vivendo il mio Corona Virus è quello che mio figlio capirà del Corona Virus. Gli ho sempre detto che aprirsi al mondo è importante, che la curiosità è la vera forza dell’uomo e ho cercato di farglielo toccare con mano ogni volta che prendevamo un volo per esplorare un piccolo pezzo di mondo. Quanto tempo ho per aprire i suoi occhi e la sua mente? Credo che molti genitori se lo chiedano e questo pensiero è andato via via rinforzandosi man mano che proseguivo nei miei viaggi dentro i luoghi, dentro le cose e dentro le persone. Con il mio lavoro ma anche con le mie relazioni fuori dall’ufficio, senza il cappello di Direttore del Personale.
Ho sempre letto molto e ho scritto altrettanto, lo ho fatto fino a poco tempo fa solo per me, poi ho deciso che volevo rendere partecipi molti a quelli che erano i miei pensieri e su quello di cui via via mi stavo appassionando: persone e tecnologia, intelligenza artificiale ed intelligenza emotiva.
Un connubio un pochino esotico per un Direttore del Personale, quello di appassionarsi all’Intelligenza Artificiale. A me era invece sembrata una logica conseguenza: se la mia passione sono le persone, tanto da portarmi a voler prendere anche una seconda laurea in psicologia nel 2016 mentre lavoravo, non poteva non interessarmi che ne sarà delle persone in futuro e che ruolo avranno le macchine nella vita delle stesse. La tecnologia ci rende più stupidi o più intelligenti? Più connessi o più alienati addirittura da noi stessi?
Il passo verso la pubblicazione del mio primo libro è stato il logico epilogo di due anni di studi. Sono partita per Parigi, ho fatto uno scambio casa alla Bridget Jones e lì, tra baguette e internet caffè ho scritto in due settimane metà del libro ultimato quattro mesi dopo in Namibia. I luoghi non solo hanno sempre accompagnato la mia scoperta ma sono stati protagonisti indiscussi del mio scrivere.
Le parole esplodono nel cuore se non trovano un pezzo di carta su cui posarsi.
Non so chi lo abbia detto, forse Shakespeare o forse qualcun altro, ma poco importa. Scrivere ti porta a conoscere, te stessa in primo luogo ma anche gli altri; pubblicare un libro è stata un’esperienza di conoscenza e di viaggio all’ennesima potenza: ho viaggiato dentro me stessa, sono tornata in luoghi del mio passato, ho vissuto il vintage degli anni ottanta e novanta ed esplorato quelli futuri. Ho costruito network e allacciato relazioni impensabili fino a quel momento, come quando sono andata nel laboratorio di Barbara Mazzolai e ho potuto vedere con i miei occhi il Plantoide di cui avevo scritto nel mio libro oppure quando ho potuto andare a conoscere di persona Nerio Alessandri e sentire da lui stesso la visione di Well being che Technogym vuole diffondere nel mondo. Mentre scrivevo il mio libro ho viaggiato non solo dentro i luoghi ma sempre di più dentro le cose e dentro le persone, dentro i sogni e dentro le speranze. E’ stato come montare sul trenino della curiosità, di quelli che c’erano nelle fiere di paese, e da lì non sono più scesa.
Pensavo che una volta pubblicato il mio bel libro con la sua simpatica copertina dello struzzo blu che fa l’occhiolino la mia curiosità si sarebbe placata, che avrei potuto ritornare alla vita “normale”, quella senza libri, senza ricerca, senza la voglia costante di esplorare oltre. Ma così non è stato.
Dopo la pubblicazione del mio libro pensavo che la mia curiosità si sarebbe fermata, invece ha iniziato a bruciare ancora di più.
Sono arrivate le presentazioni del libro e qualche articolo di giornale e poi nel bel mezzo del mio piccolo Tour il Corona Virus. Tutto si ferma. L’unica cosa a non fermarsi sembrava essere la mia mente. Continuavo a pensare che volevo esplorare altro, che dovevo mettere in campo quotidianamente le ulteriori competenze che avevo acquisito e quello che avevo imparato.
Quello che avevo esplorato con il libro mi piaceva e la cosa che mi dava maggior soddisfazione era imparare cose nuove e trovare il modo per rendere quelle cose utili anche agli altri. Mi sono ritrovata come molti genitori improvvisamente a confronto con il programma scolastico e con i libri di testo, quelli stessi che avevo preso in mano una sola volta quando avevo aperto il pacco di Amazon a settembre 2019 e che avevo immediatamente consegnato alla babysitter affinché li facesse foderare perché non si sciupassero. Tutti ordinati nello scaffale e con il nome sopra, oltre non ero andata, mi sono ritrovata per la prima volta a sfogliarli e a capire cosa effettivamente mio figlio stesse studiando.
Il salto: è stato come il mio primo lancio con il paracadute. Sento ancora le urla dell’Olandese che doveva lanciarsi prima di me: I can’t do it!
Allora l’istruttore lo ha scaraventato in fondo al Cessna e mi ha detto “Your turn“. Cavoli. Era il mio turno. Salto o non salto?

Ci sono momenti in cui senti di dover fare altro, quelli in cui hai dentro qualcosa che sta per esplodere e che se non lo fai uscire imploderai su te stessa. Dopo 46 anni, ho sentito quella spinta dentro che mi ha fatto dire: o adesso o mai più.
Recentemente mi hanno chiesto in una intervista sul mio progetto perché “adesso o mai più” e se senza Corona Virus sarei arrivata alla stessa conclusione. Sinceramente non lo so. Ci sono momenti in cui lo senti, non sai bene perché adesso, ma sai che non può essere differente. Punto. Quello che sapevo in quel momento è che se non cogli al volo l’attimo in cui senti quel “mai più” sei fottuto, perché passa e torni sulla famosa ruota, quella del criceto, anche se a me sembrava la ruota dell’elefante da tanto appesantita mi sentivo.
Poi salti. E cavoli, ti rendi conto che non hai il paracadute. O meglio, ce l’hai ma non sai bene se riuscirai ad aprirlo in tempo. La sensazione che ho avuto è stata la stessa di quando vent’anni fa ho fatto il mio primo salto da sola con il paracadute dopo aver fatto solo tre ore di teoria. Mentre ero seduta con le mie chiappe sul bordo di quel Cessna in un luogo più o meno indefinito vicino a Cape Town, mentre sentivo il freddo delle lamiere sul mio fondoschiena e l’aria in faccia che entrava dallo sportellone aperto ho pensato: o adesso o mai più.
In quel momento ho pregato “Gesù, te lo giuro, proteggimi tu, e ti prometto che questa sarà l’ultima cazzata della mia vita che faccio!” Non ci sono mezzi termini per quello che stavo facendo, è stata molto di più di una bravata: sola in Sudafrica, nessuno che sapesse dove io fossi, con sole tre ore di teoria alle spalle e una scuola di paracadutismo decisamente di dubbia provenienza, tanto quanto il paracadute che avevo sulla schiena. Ho rivolto gli occhi verso il cielo davanti a me, perché più in alto non potevo guardare, le nuvole erano sotto, il sole di quel tre luglio sudafricano mi abbagliava e quando le nuvole le hai sotto invece che sopra ti rendi conto che voltare gli occhi al cielo da quattromila piedi è diverso che farlo dal giardino di casa. Poi sono saltata. Sento ancora l’aria fredda che mi entrava da sotto la felpa, l’imbracatura del paracadute che mi stringeva le cosce ed io che pensavo “Speriamo che non mi si sfili dalle gambe quando lo apro”.
Non so quanto ho pensato, avevo solo venti secondi prima di tirare quella cordicella, in venti secondi in teoria non pensi molto e invece mi sembra di aver avuto il tempo di pensare a tutto, a come mi sarei sfracellata, al fatto che stavo volando libera nel cielo, a come i miei genitori non avrebbero mai saputo come fossi sparita perché allora non avevo un cellulare e nessuno sapeva di quella pazzia, ma pensavo anche a quanto era bello essere libera di volare.
Ho pensato a mio padre, a quanto sarebbe stato orgoglioso come Paracadutista del mio primo lancio, a mio nonno, anche lui Paracadutista, ho pensato un sacco e ancora oggi mi chiedo come fai a pensare a tante cose in venti maledetti secondi.

Molli il lavoro senza averne un altro e decidi di girare il mondo mentre fuori dalla porta di casa è arrivata una pandemia. Ecco, questa volta non sentivo le mie natiche sulle lamiere di un Cessna ma le avevo sul mio comodo divano, però la sensazione di salto nel vuoto è stata la stessa identica di vent’anni fa.